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L'opera narrativa di Stefano D'Arrigo - il colossale epos tardonovecentesco di Horcynus Orca e lo smilzo, reticente Cima delle nobildonne - ha intrattenuto un rapporto ambiguo con il canone della letteratura contemporanea. L'insieme degli scritti raccolti in questo volume affronta da varie prospettive (antropologiche, socioculturali, traduttologiche) lo scrittore di Alì, nell'intenzione di mostrare quanto il suo lavoro di artista orgogliosamente autosegregato - o "culo di pietra", secondo una sua colorita definizione - intersecasse i dibattiti culturali più vivi del secondo Novecento, tuffandosi nella materia traumatica del secolo, ovvero il combinato di guerra totale e tecnica invasiva. La nomea di romanziere bizzarro e inavvicinabile che per molto tempo ha accompagnato D'Arrigo, già a più riprese revocata in dubbio dall'ultimo ventennio di studi, qui si conferma una volta per tutte frutto di un equivoco. Di cui l'appendice iconografica e bibliografica esibisce la dinamica di formazione, tra letture frettolose e pregiudiziali ideologiche e estetiche legate alla stagione che vide uscire l'Orca. Doppiato il capo del centenario della nascita (1919), bisogna continuare a leggere D'Arrigo come una figura cruciale che ha interpretato in profondità il nostro tempo con i soli mezzi della letteratura.